I dati che si leggono relativi alla violenza perpetrata sulle donne sono terribili: nel mondo la violenza contro le donne interessa 1 donna su 3.
Per quanto riguarda l’Italia negli ultimi anni i femminicidi sono stati causati per il 60% da partner o ex partner. Senza arrivare all’omicidio, la stragrande maggioranza delle violenze sulle donne vengono perpetrate da chi in teoria dovrebbe amarci. La mia esperienza professionale lo conferma: spesso le donne sono vittime di violenza, soprattutto all’interno delle mura domestiche. Ma non denunciano. Spesso, non ne parlano… a volte nemmeno a me: lo vengo a scoprire a separazione avvenuta, magari dopo anni.
Mi sono spesso domandata il perché, e, purtroppo, la mia risposta è “per paura”.
Cosa temono le donne vittime di violenza?
Innanzitutto la violenza non si esplicita unicamente in percosse. A volte si tratta di violenza psicologica, spesso non meno grave di quella fisica.
Insulti, recriminazioni, discredito. Controllo del telefono, stalking: “sorprese” più o meno gradite sul lavoro, sottrazione del denaro per rendere la donna economicamente dipendente. Divieto di frequentare amicizie, vendita della macchina di lei, in modo da renderla dipendente negli spostamenti.
Allora per quale motivo le donne non denunciano, non ne parlano, non si separano? Come è possibile che spesso succedano tragedie e nessun vicino di casa si era accorto di violenze protratte nel tempo?
Perché le donne sopportano situazioni infernali?
Spesso per i propri figli. Erroneamente si crede che tenere unita una famiglia anche in caso di violenza sia la cosa migliore per i figli: la questione è di grande delicatezza, ma ci sono due aspetti da considerare: cosa si sta comunicando ai propri figli? Nella migliore delle ipotesi che è giusto resistere e farsi trattare male. Un’idea decisamente distorta di ciò che è amore. Nel peggiore degli scenari i figli potrebbero imitare un modello educativo prevaricante e violento…
Spesso invece le donne vittime di violenza non denunciano per timore di non essere tutelate dalla giustizia: non ora, non più.
Legge n. 69/2019
La relativamente nuova legge n. 69/2019 ha messo il “turbo” alla tutela delle donne vittime di violenza.
Tale normativa prevede una procedura d’urgenza (il cosiddetto “Codice Rosso”) diretta alla rapida tutela delle vittime dei seguenti reati, se rientranti nell’ambito della violenza domestica o di genere:
- maltrattamenti contro un familiare o un convivente;
- violenza sessuale (anche di gruppo oppure su minori);
- stalking;
- lesioni personali gravi;
- revenge porn;
- deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso.
Senza entrare troppo nei tecnicismi della procedura, il fine della nuova normativa è accelerare i tempi che normalmente esporrebbero la vittima ad ulteriore violenza, talvolta causata proprio dalla “denuncia” dell’accaduto.
Il magistrato del pubblico ministero, ricevuta la querela dalla polizia giudiziaria, ha tre giorni di tempo per assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato. Così facendo, il pubblico ministero potrà chiedere al giudice, se lo ritiene opportuno, l’emissione di una misura cautelare.
Meno immediato, ma comunque importante da citare, è anche l’ordine di protezione contro gli abusi familiari ex artt. 342 bis e seguenti.
Art 342 bis
L’art. 342 bis, c.c. prevede che gli ordini di protezione contro gli abusi familiari vengano disposti “quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente”.
Si tratta di persone che convivono con la vittima, che pongano in essere una condotta che provochi un pregiudizio grave all’integrità fisica, morale o alla libertà personale del familiare convivente.
Gli episodi di violenza possono consistere pertanto in violenze fisiche o morali, protratte nel tempo, a distanza piuttosto ravvicinata, indipendentemente da qualunque ne sia la causa.
L’ordine di protezione può essere emesso contro un coniuge nei confronti dell’altro, un genitore nei confronti dei figli, ma anche viceversa.
L’ordine di protezione in pratica consiste nell’ordine del Giudice di cessare la condotta pregiudizievole e ne dispone l’allontanamento dalla casa familiare.
Con il decreto di cui all’articolo 342 bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio [43] della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti [74 ss.] o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione.
Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata dell’ordine di protezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore a sei mesi e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.
Purtroppo, però, spesso le donne non denunciano (e rimangono, sopportando), per timore del giudizio altrui. Per timore di non essere credute, capite, supportate.
Ci sono numerose associazioni, numeri verdi (1522 in primis), consultori. Ma quanto è importante la comunità, il vicinato, chi “sente”? Urge un cambio di vedute, che esca da una logica di giudizio ed entri nella dimensione dell’aiuto, del supporto alle donne vittime di violenza.
Dell’ ”accompagnare fuori” tenendo per mano, rispettando i tempi, ma creando una forte rete di “sorellanza”.
Bisogna creare legami… che includano. Supportino. Che non giudichino. Che, a volte, possono davvero salvare la vita…
Avv. Beatrice Perini – Altri articoli del Blog